Quando
ci si appresta a preparare l' ennesimo allestimento di una commedia
classica è sempre lecito porsi una domanda: quale perdurante valore
consente ad alcune scritture teatrali di attraversare i tempi
incontrando e provocando in modo continuo e sempre nuovo l'interesse
di pubblico ed artisti? Nel caso specifico de L'avaro
di Molière ci si chiede anche cosa permetta all'aridità
spirituale e materiale di Arpagone di essere ancora oggi tanto
leggibile e fruibile; cosa le abbia consentito di attraversare con
imperturbabile credibilità quelle trasformazioni radicali che in
circa tre secoli hanno caratterizzato la vita pubblica e privata
degli uomini. È certo che l'artificio drammaturgico molieriano sia
informato di caratteri espressivi dalla efficacia oggettiva e che
questo rappresenti un motivo fondante e sufficiente che giustifica le
riproposizioni. Esiste, però, un altro valore altrettanto
incontrovertibile che fa da contrappunto alla meticolosa tecnica di
punteggiatura teatrale di Molière. E' quello evidenziato e
rappresentato da un mondo intimamente corrotto di straordinaria e
persistente contemporaneità che si articola intorno al vizio
capitale dell'avarizia. Un mondo che Molière anima di complottismi,
di ipocrisie, di opportunismi, di raggiri, di arrivismi, e che abita
di fingitori, spreconi, faccendieri, mediatrici, sensali di fronte ai
quali l'avaro Arpagone si erge quasi come figura consapevole e
sinceramente reo-confessa, pervasa, infondo, da una profonda onestà
intellettuale.
Lui
è naturalmente complementare a tutti gli altri, il suo vizio lo
conduce ad una solitudine apparentemente compiaciuta e strafottente,
ma che lo costringe a perdere poi quasi più di quanto abbia cercato
di trattenere. È incapace di donare il suo tempo e se stesso,
valuterebbe il dono come una perdita e la perdita è spreco e lui è
un economo conservatore, non può sprecare. È un posseduto dal
denaro, accumula ma non usa, diffida, sospetta, accusa, impone,
capitola e subdolamente si riabilita, la sua insana fragilità lo
destina al drammatico succedersi di buffo e tragico.
Una
ritmica recitativa incalzante, mira all'esasperazione del
vertiginoso virtuosismo teatrale del testo, la ricerca di una
riproducibilità di passioni vere, ancorché viziate, tende a
conferire caratteri di ulteriore credibilità agli stilemi dialogici
dell'epoca, la individuazione di uno spazio irreale dove abbia
ragione e luogo la storia ne segnala la atemporalità. I personaggi
sembrano addirittura attraversare le epoche (come se la tela si
aprisse nel '600 e calasse sul 2000) in una successione di stili che
si snoda nell'immutabilità della trama originaria. Intorno un
perimetro, quasi museale, di teche che custodiscono una nutrita e
cangiante collezione di sedie. (il collezionismo come altra
declinazione dell'avarizia: ossessione del possedere?) Sedie di
epoche diverse in cui è possibile leggere il segno del potere, ma
anche quello dell'assestamento e, conseguentemente, dell'impigrimento
e della devitalizzazione. Simbolo e segno, insomma, di quella
depressione dissimulata di Arpagone che gioca, combatte e si dimena
con indomito furore e spaesata dabbenaggine contro le maschere della
borghesia e contro i fantasmi della propria psiche.
Teatro
Quirino
martedì
15 ottobre prima stampa ore 20.45
repliche
fino al 27 ottobre
CIVIT’ARTE
2013 e Bon Voyage ProduzioniLello
ArenaL’AVAROdi
Molière
con
Fabrizio
Vona Francesco Di Trio
Valeria
Contadino Giovanna Mangiù Gisella Szaniszlò Fabrizio Bordignon
Enzo
Mirone
musiche
Paolo
Vivaldi
scenografo
Luigi
Ferrigno
costumi
Maria
Freitas
foto
di scena Max
Malatesta
regia
Claudio
Di Palma
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