Tunué, un'istituzione nel campo dei fumetti, a maggio ha lanciato una collana dedicata alla narrativa il cui editor è Vanni Santoni. Il secondo volume è il romanzo veloce e ipermoderno di Iacopo Barison, la storia di una fuga, feroce e al contempo tenera, che cambia la vita. S'intitola "Stalin + Bianca" (pag. 112, € 9,90) e racconta la storia di un ragazzo che appena diciottenne, dopo una brusca lite con il patrigno, credendo di averlo ucciso, scappa di casa con la sua amica Bianca. Un racconto avvincente creato con una combinazione di dolcezza e crudeltà. Nato a Fossano nel 1988, l'autore, intervistato da Fattitaliani, scrive articoli per minima&moralia, il blog di minimum fax, e per vari siti di cinema.
In che senso il tuo romanzo è
ipermoderno?
Più
che il romanzo in sé, sono l'ambientazione e il contesto ad essere
ipermoderni. Quello di S+B è un mondo strano, dove il vecchio e il
nuovo convivono e si contaminano. In mezzo alla natura, ad esempio,
spuntano centri di ricerca medici del tutto asettici, dentro i quali
non si capisce cosa succeda. È
un mondo inquietante, ma al contempo suggestivo e poetico. A livello
di scrittura e linguaggio, invece, non mi definirei ipermoderno,
perché il minimalismo non l'ho certo inventato io, nonostante abbia
cercato di “adattarlo” alla nostra epoca.
Rispetto
a Stalin, a posteriori ricordi un preciso momento del tuo passaggio
all'età adulta?
Forse
sì, forse no. Mi spiego meglio: per molti aspetti mi sento ancora un
bambino, ho bisogno che la gente mi dica che sono bravo, che sto
facendo la cosa giusta. Questa è la classica insicurezza da Primo
Mondo, se ancora ne esiste uno. È
una forma di fragilità interiore ed è tipica del mio blocco
anagrafico, quello nato alla fine degli anni '80. Uno squilibrio
emotivo che non ci ha ancora permesso di diventare adulti, non in
modo definitivo, perlomeno. Siamo ancorati alla figura di un
genitore, di una fidanzata, di un migliore amico che ci rassicuri e
ci dia respiro. La mia è la generazione dell'ansia, per certi versi.
Ma se proprio devo individuare un momento preciso, una situazione che
mi ha permesso di crescere, direi che è collegabile all'inizio della
mia attività letteraria. Scrivere mi è servito moltissimo, anche
per capirmi meglio. Funziona un po' come la fede, ti ci aggrappi nei
momenti bui.
Come
scrittore, ti è costato far fare delle particolari scelte al tuo
personaggio nel corso della narrazione?
No,
non direi. Il romanzo è narrato in prima persona: come autore, ho
empatizzato molto col personaggio di Stalin. La sua, in un certo
senso, è una forma di rabbia giovane, che spesso ho provato anch'io.
Nonostante ciò, scrivendo S+B, ho cercato di mantenere “la giusta
distanza”, come si dice in ambito giornalistico. Non volevo neanche
immedesimarmi troppo. Fra me e Stalin c'era e c'è tuttora una specie
di velo, uno sfasamento che il minimalismo del mio linguaggio
richiedeva per forza, altrimenti lo stile ne avrebbe risentito.
A
che cosa hai fatto particolare attenzione nel costruire e raccontare
l'amicizia fra Stalin e Bianca?
Volevo,
fin dal titolo, che i due personaggi fossero complementari. In
effetti, nel corso del romanzo, Stalin e Bianca si completano a
vicenda, e l'amicizia diventa presto un amore platonico. Fra di loro
non c'è sesso, perché Stalin è un disagiato e non saprebbe da dove
iniziare. Il loro amore è per molti versi ingenuo, ma anche
purissimo. Inoltre non volevo che Stalin sembrasse il “badante”
di Bianca. Lei è una ragazza autonoma, con una personale visione
delle cose, e non ha bisogno di qualcuno che guardi il mondo per lei.
In
che cosa lei lo aiuterà a “guardare” il mondo con occhi diversi?
Bianca
fa da contraltare alla rabbia di Stalin. Grazie a lei, il
protagonista capisce che l'amore può davvero essere la risposta a un
sacco di cose, a tutte le questioni irrisolte che ci portiamo dentro.
È
per questo che ho scelto di raccontarlo, ispirandomi ai film di
Truffaut: l'amore è il sentimento perfetto per provare a capirci
come esseri umani.
Potresti
dirci qualcosa sui libri su cui ti sei formato?
Be',
sono davvero tanti. I classici come Tolstoj o Thomas Mann sono state
le basi, poi mi sono concentrato sulla scuola del minimalismo, da
Carver a Bret Easton Ellis, passando poi per Cormac McCarthy. Una
buona parte della mia formazione, però, la devo al cinema e al suo
potere immaginifico. I dialoghi stessi, se vogliamo, li ho scritti
pensando a un'ipotetica sceneggiatura, rispettandone alcuni canoni. Giovanni Zambito.
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