Ennio Fantastichini in "Beniamino", regia di Giancarlo Sepe. Al Teatro Ambra Jovinelli dal 7 al 17 novembre. L'intervista di Fattitaliani.
E’ una super vittima, un agnello sacrificale, è un fanciullo intrappolato nel corpo di un omone, un innocente che per colpa di pregiudizi, del taglia e cuci, delle malelingue, di un apparato borghese viene travolto e distrutto per qualcosa che non ha commesso.
Il testo è stato rappresentato per la prima volta a Londra nel 1976. E’ ancora attuale?
La mia presenza in questo testo è anche culturale, il nostro Paese ha un rigurgito di omofobia molto pericoloso e drammatico, ne è la prova il suicidio a Roma di un ragazzo,, ero con lo spettacolo a Milano e sono stato tutta la notte con l’angoscia di quei genitori che sono andati sul luogo dove il figlio “morto” per un pregiudizio. In questo senso la mia scelta è il contributo che faccio ogni sera contro l’omofobia.
Chi è Beniamino?
E’ un logopedista insegnante di locuzione scespiriana, è un attore al tramonto della sua carriera. Un giorno gli arriva una telefonata da questa fantomatica Signora Franklin che gli parla di un fanciullo dodicenne con problemi di balbuzie. Beniamino è omosessuale, si traveste, vive una doppia vita perché in quegli anni l’omosessualità era punita con il carcere in tutti i Paesi del Commonwealth, come adesso succede in Russia. Credo che ciò sia una cosa medievale, è ignobile punire per una scelta sessuale che invece deve essere una scelta personale che non debba riguardare nessuno. Ritornando al testo, l’innamoramento verso questo ragazzino è platonico: non hanno mai un contatto fisico e in seguito sfocia in affettività paterna.
Prima di lei interpreti del testo sono stati Antonio Solinas e Paolo Ferrari: si è in qualche modo ispirato a loro?
No, perché non lo faccio mai: ogni volta il rapporto con il testo è strettamente personale, non ho voluto vedere le interpretazioni precedenti perché ogni volta si resetta tutto e l’interpretazione è individuale è dell’attore che la fa! E’ la prima volta che lavoro con Giancarlo Sepe anche se ci conosciamo da molti anni e credo che volevamo raccontare entrambi la stessa storia, una storia di innocenza e siamo riusciti nell’intento.
Fantastichini, si sente ancora un fanciullo?
Certamente sì, sono molto a disagio con gli adulti, mi trovo meglio con i bambini che sono innocenti. Quando mio figlio era bambino, avevo sempre tantissimi bambini a casa, preparavo i muffin, uno spettacolino teatrale, giocavamo con i colori. Ho sempre cavalcato la parte ludica della mia vita sia come persona che come padre. A mio figlio raccontavo le storie con la luna fosforescente e i pianeti. L’innocenza dei fanciulli è l’ultima speranza che ci è rimasta.
In televisione con Le cose degli altri ed al cinema con Mine vaganti ha interpretato un padre in conflitto con i figli. Si riconosce di più in suo padre o nel suo ruolo paterno?
Mio padre era un uomo che veniva da un altro mondo e non so come avrebbe preso una mia scelta omosessuale. Credo che la prima domanda che un padre debba fare a suo figlio sia “Sei felice”? Fare il padre è il mestiere più difficile del mondo perché non si può studiare da nessuna parte. La cosa fondamentale che non va dimenticata è che i figli non sono parte di noi, non sono il nostro braccio, la nostra gamba, i figli sono altre persone. Una volta che si è metabolizzato questo punto di vista, credo che le cose potrebbero andare molto meglio. Se riesco a cambiare il punto di vista di un solo Antonio il mio personaggio in Mine Vaganti, questa sarà una grande vittoria nella mia vita. Quando facevamo la promozione del film mi ha avvicinato un signore e mi ha abbracciato ringraziandomi perché si era ritrovato nel tema e io l’avevo aiutato a capire. Una battuta esilarante che faceva Lunetta Savino al fidanzato del figlio “Ma si può guarire da questa malattia?” ed il ragazzo le rispondeva “Signora questa non è una malattia ma una condizione”. I genitori che la vivono come malattia è perché sono ignoranti. Bisogna leggere di più, educarli alla civiltà ed al rispetto degli altri. Ogni persona ha il diritto di scegliere il proprio orientamento sessuale, la propria religione, la propria posizione politica, così è tutto più semplice.
Il teatro non la fa sentire solo perché le dimostra che in questo Paese “non sono tutti morti”, venendo qui due ragazzi chiacchieravano ed uno diceva all’altro “dobbiamo andare più spesso a teatro” e l’altro gli rispondeva “ No, perché a me piace il cinema, il teatro è morto”. Perché un giovane fa un’affermazione così forte?
Perché il teatro è stato ucciso da venti anni grazie ad una televisione ignobile che trangugia e divora come succedeva nel film di Mel Brooks “L’ultima follia” in cui la società di produzione si chiamava Trangugia e Divora. Ribadisco, in questi ultimi venti anni, non è che prima si brillasse perché questo paese ha avuto da sempre un rapporto conflittuale con la cultura, ricordiamo Pasolini. Prima c’era un mercato e la domanda, oggi il mercato domina tutto. Prima si chiedeva com’era il film, oggi si chiede quanto ha incassato. Sono cresciuto con una frase meravigliosa “Il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi”. La mia comicità era fatta di Charlie Chaplin, Buster Keaton, i comici di oggi non mi fanno ridere, mi fanno una grande tristezza. Il tutto si potrebbe riportare ad una famosa frase del film di Pasolini “ La Ricotta” in cui chiedevano ad Orson Welles cosa pensasse dell’Italia e lui rispondeva “La borghesia più ignorante d’Europa è un popolo di analfabeti”. Mentre prima c’era un grande rispetto verso la cultura oggi c’è un grande disprezzo. Una volta la gente diceva “Io so' ignorante, sta cosa nun la saccio ”, adesso si dice “De che? Io a so”. La cultura fa paura. Elisabetta Ruffolo.
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