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martedì 15 febbraio 2011

L'Elisir d'amore al Teatro dell'Opera di Roma. Fattitaliani intervista il regista Ruggero Cappuccio: "Donizetti racconta una storia musicale legata alla luce"

di Giovanni Chiaramonte. Una furtiva lagrima / negli occhi suoi spuntò: /Quelle festose giovani /invidiar sembrò... Chi non conosce l'Elisir d'amore di Gaetano Donizetti? Generazioni di italiani sono cresciute a pane, pasta e furtive lagrime. Nell'Ottocento una nuova rappresentazione d'opera poteva suscitare l'attesa che in questi tempi ci può essere per un derby...  purtroppo però di queste grandi passioni italiane sono rimaste il pane e la pasta: della lirica oggi si conoscono sì e no le arie più note, ma la passione di tutto un popolo è svanita. 

Su questo tema cominciamo la nostra intervista con Ruggero Cappuccio, il regista de L'Elisir d'amore in scena al Teatro dell'Opera di Roma fino al 18 febbraio. Scrittore, regista teatrale, drammaturgo, produttore, Ruggero Cappuccio appartiene a quel ristretto club di meridionali colti nei quali lucidità di giudizio, passione per le letterature e sangue creativo si sono totalmente amalgamati forse grazie al sole del sud, ai buoni studi, al mare di cui hanno nutrito gli occhi e, last but not least, a quell'otium tutto meridionale che l'ignoranza di un certo nord traduce con ozio...

Dott. Cappuccio, come mai l'opera, che tanto successo aveva nell'Ottocento, oggi si è ridotta a un fatto elitario, a un fenomeno di nicchia..

C'è una scarsa capacità di promuovere il rinnovamento nel mondo operistico italiano. Gli italiani sono un popolo molto affezionato alla ritualità di conforto, sono un popolo tendenzialmente presepiale nella mentalità. Che cosa vuol dire questo? Che il presepe si fa ogni anno e che la posizione del Bambin Gesù è al centro fra la Madonna e San Giuseppe, che l'asinello si mette in quel posto e il bue in quell'altro..
Quindi siamo un popolo di figli protetti dalle abitudini materne...
Assolutamente. Gli italiani come popolo traggono molto conforto dalla presunta invariabilità. Più le cose sono invariabili più essi sono confortati. Faccio un esempio: a Napoli quasi ogni anno si mette in scena "Miseria e nobiltà". Lo spettacolo lo conosciamo, il film di Totò è straordinario, i napoletani conoscono a memoria tutte le battute di "Miseria e nobiltà", pur tuttavia ogni anno ci vanno. E' come se io avessi la sensazione che i napoletani decidano di ridere prima ancora di entrare in teatro: ridono fuori sinc, ridono quasi prima che la battuta sia stata pronunciata; questo succede col pubblico operistico.
Insomma, è come il ragù della mamma, che si fa solo in quel modo, che è buono a prescindere e che va mangiato tutte le domeniche...
Esattamente. Quindi diciamo che quando si va a vedere "L'Elisir d'amore" il pubblico tendenzialmente, nel 99% dei casi, paga il biglietto per arrivare a un momento cruciale, che è La furtiva lagrima. Arriva La furtiva lagrima e si aspetta che quel ragù sia esattamente il ragù, come diceva lei, che viene cotto ogni domenica e si ha un'idea che oramai fa parte del proprio gusto che riguarda la cottura della pasta, la densità del ragù: se c'è un minimo sfasamento rispetto al gusto consolidato e alle aspettative consolidate, su quella vicenda il pubblico deborda e non ci sta. L'altro aspetto è che non abbiamo avuto classi dirigenti in grado, in questo paese, di promuovere un rinnovamento culturale anzi, diciamo, una crescita culturale, perché poi qualsiasi rinnovamento si fonda sulla tradizione, questo è evidente. Ma cosa significa fare rinnovamento? Significa fare come nel '33, come in questo Teatro dell'Opera si faceva; c'erano moltissimi titoli operistici classici, che poi tanto classici non erano, perché nel '33 Verdi era molto più vicino che a noi, però poi troviamo i titoli di Verdi che troveremmo anche oggi, solo che sono passati ottanta anni; in più c'erano tre novità in quel cartellone: c'era per esempio Respighi, che in quel momento era un contemporaneo; quindi c'è una scarsa capacità di promuovere il rinnovamento, c'è una scarsa capacità di promuovere gli orientamenti nuovi della scena, sia per quel che attiene alla regia sia per quel che attiene ai giovani compositori.
Scarseggiano i giovani compositori o scarseggiano i direttori artistici che diano loro spazio?
Scarseggiano i direttori artistici. Ammettiamo per un attimo che non ci siano talenti compositivi - può essere - ma noi non possiamo dire che in una città non ci sono talenti calcistici se non c'è un campo dove farli giocare! La storia di tantissimi compositori ci insegna che senza l'esercizio della scena il compositore non cresce. Quando Fellini fece il suo primo film, Lo sceicco bianco, la critica disse: l'unica cosa che reputiamo costruttiva e fortunata è sapere che questo signore non farà mai più un film. Poi Fellini li ha fatti altri film, ha fatto dei capolavori planetari. Allora, se non c'è un luogo di esercizio dove un compositore - che naturalmente abbia del talento - può mettersi alla prova, queste cose non le scopriremo mai. E' un mondo molto autoreferenziale, non aperto alle novità; sembra quasi che - un po' in tutta Italia, non solo nel campo della lirica ma anche nel campo della letteratura, del teatro - il compito di coloro i quali manutengono i quadri artistici sia stato più quello di abbassare il livello dell'arte al pubblico che non innalzare il livello del pubblico all'arte.
Con riguardo all'Elisir d'amore, c'è una sua particolare visione dell'opera che l'ha gudata nella regia?
C'è una tentazione che il regista d'opera corre spesso, un pericolo: quello di lasciarsi soggiogare dall'idea di stupire il pubblico. Io non sono affascinato dall'idea di stupire. C'è un altro pericolo: quello di mostrare sempre una angolazione nuova sulle cose. Ora, qualche volta mostrare una angolazione nuova è impossibile e pericolosissimo, a meno che tu non abbia una grande necessità e una idea molto chiara di quale sia questa angolazione nuova. Uno dei problemi su cui si ragiona poco è che molte volte il regista, quando mette in scena un'opera lirica, fa un ragionamento sulla trama, sui personaggi e sulla trama: che succede nell'Elisir d'amore? C'è un paese di campagna, ci sono dei mietitori che tornano dal lavoro, c'è una ragazza capricciosa, c'è un ragazzo che è innamorato di lei; lei però crea tutta una serie di ostacoli. Basta per un regista per costruire l'azione scenica seguire quelle che sono le evoluzioni della trama? Secondo me, no. Allora quale è la cosa veramente interessante? Il libretto racconta una storia, allora tu come regista dici: qui c'è Castel Sant'Angelo, qui c'è la sala da ballo del ballo in maschera, qui c'è il campo dei mietitori; ma c'è una storia raccontata dalla musica! Allora è lì il punto. Io ho percepito che la storia musicale che raccontava Donizetti era una storia legata alla luce, era un desiderio di luce. Naturalmente io posso sbagliarmi, però ho sentito nel modo in cui lui concerta, nella limpidezza che cerca nel tessuto musicale, questo ragionamento molto forte: la luce. Allora, al di là di quella che è l'evoluzione della trama, ho costruito un mondo che abbia una relazione con la luce e con la musica che Donizetti scrive.
Quindi lei ha cercato di riportare l'opera allo spirito originario...
Di riportarla allo spirito originario in forma nuova, perché in certi casi lo spirito originario in queste cose è più moderno della pretesa modernità, perché in fondo il moderno, secondo me, cosa è veramente? E' l'essenzialità. Ora, nell'essenzialità Seneca è modernissimo, per come scrive, per la rapidità, per l'incisione che riesce a costruire. Un giornalista che scrive oggi può essere invece totalmente non moderno. Elisir d'amore è ingombrato da anni di trovarobato, perché si fanno il fieno vero, trattori, cesti, contadini, fazzoletti al collo. Un'addizione da scasso, direi io. E' giusto? Si potrebbe dire: ma caro Cappuccio, come crede che l'abbia fatto Donizetti a Milano nel 1832, quando l'ha messa in scena? Non c'era mica un grattacielo, ci sarà stato un campo di grano! E' vero: ma era dipinto! Era un fondale dipinto. Il fondale dipinto di per sé crea un rapporto magico, favolistico. I fondali dipinti quindi permettevano un distanziamento dal fatto realistico; come dire: adesso noi vi mostriamo la campagna ma, badate, è un gioco! Qual è la cosa veramente interessante del mostrare senza pretendere di fare cose dal vero? Se io ti faccio vedere l'Annunciazione di Leonardo alla Galleria degli Uffizi, ti sto chiedendo collaborazione: cioè sto chiedendo allo spettatore di crederci insieme a me, e quindi di far partire la fantasia dell'individuo. Se invece io ti riempio di avvenimenti visivi la scena, tu assisti, ti diverti anche, perché può arrivare l'elicottero, don Giovanni con la limousine, donna Elvira con la Suzuki, e tu dici: guarda, la Suzuki che entra in scena! Ma queste cose potevano avere un valore negli anni Cinquanta quando Garinei e Giovannini facevano apparire in Rinaldo in campo i tre briganti con gli asini, che cantavano 'siamo rimasti in tre', ed era divertente. Non siamo più in quel momento, non siamo più in quella fase, non siamo più in quel contesto, quindi l'essenzialità molte volte è nell'antico. L'antico è essenziale - in alcuni casi - tanto è vero che - in alcuni casi - ancora oggi ci stupiamo enormemente di fronte alle forme classiche della pittura e della scultura. Perché? Perché lì c'è un segno essenziale. Non c'è niente più di quello che ci deve essere: e la cosa più difficile nella scrittura, come nelle messe in scena, è fare delle cose in cui non ci sia nulla di più di quello che ci deve essere. Basta una cosa in più e quell'essenzialità è compromessa.
Se potesse scegliere lei un'opera da mettere in scena...
Non ho un desiderio, un sogno su cosa mettere in scena. Mi è piaciuto fino ad oggi lavorare a queste avventure che graziosamente mi sono state proposte. Ho avuto la fortuna di conoscere molto giovane quelli che io reputo dei grandissimi maestri. La vicinanza con Riccardo Muti quando si hanno 33 anni e si debutta nel mondo della lirica, è un dono del Padreterno; la vicinanza con Roberto De Simone, un altro dono; l'aver conosciuto da vicinissimo Giuseppe Patroni Griffi, Raffaele La Capria, Gioacchino Lanza Tomasi, sono grandi doni perché appunto entri in questo mondo che ti porta una cultura antica e una cultura moderna, un grande sapere. Ora pare che per guardare lontano bisogna sempre cercare di salire sulle spalle dei giganti, in qualche modo. Sicuramente mi piacerebbe moltissimo mettere in scena Rossini o Mozart. Su Mozart ci sono andato vicino perché ho messo in scena Cimarosa: è in qualche modo una specie di suo antenato! Però devo dire che desidererei metterli in scena solo nella misura in cui dovesse esserci un progetto musicale con un direttore che vuol fare un certo tipo di lavoro; farlo per farlo no, proprio per niente. Anzi più sono interessato, appassionato, a una cosa da mettere in scena, più divento guardingo, perché la cosa ha una tale delicatezza! Bisogna assicurarne la protezione, l'accudimento. Una cosa che mi contraddistingue è che non ho crisi di astinenza, nel senso che se per esempio per un anno o due non faccio una regia teatrale sto benissimo, perché leggo, scrivo; se non metto in scena un'opera lirica vivo benissimo. Ci sono invece molti registi, che hanno questo fenomeno, giustissimo per carità, di dipendenza dal palcoscenico, hanno proprio bisogno di quella atmosfera, di quell'ambiente. Per fortuna ci sono molte altre cose nella vita e quindi c'è un certo equilibrio.
Giovedì 17 febbraio sarà pubblicata la seconda parte dell'intervista, dedicata a Ruggero Cappuccio scrittore

L'Elisir d'amore
Musica di
Gaetano Donizetti
Melodramma giocoso in due atti
Libretto di Felice Romani
Durata: 2 ore e 40 minuti circa (intervallo compreso)
Martedì, 15 Febbraio, ore 20.30
Giovedì, 17 Febbraio, ore 20.30
Venerdì, 18 Febbraio, ore 20.30

Direttore Bruno Campanella
Regia Ruggero Cappuccio
Scene Nicola Rubertelli
Costumi Carlo Poggioli
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Disegno luci Agostino Angelini
Interpreti
Adina Adriana Kucerová (4, 6, 12, 15, 17) /
Rosa Feola (18)
Nemorino Saimir Pirgu (4, 6, 12, 15, 17) /
Ivan Magrì (18)
Belcore Fabio Maria Capitanucci (4, 6, 12, 15, 17) /
Gezim Myshketa (18)
Dulcamara Alex Esposito (4, 6, 15, 17) /
Simone Del Savio (12, 18)
Giannetta Erika Pagan
ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL'OPERA
Nuovo allestimento del Teatro dell'Opera

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(foto C. M. Falsini)

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